France

in un’intervista rilasciata nel 2018 a Locarno, dov’era premiato con il Pardo d’Onore e presentava al pubblico ticinese la serie Coincoin et les Z’inhumains, il regista francese Bruno  Dumont dichiarò: «Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema. Un tempo, la finzione era relegata al cinema. Ora esce invece dalle sale e confonde le linee di demarcazione: la realtà diventa una finzione e la finzione un universo alternativo. Possiamo dire che oggi c’è tanto cinema ovunque, in tutti i media».
 
Il suo nuovo film France (2021) presentato a Cannes in concorso si sviluppa interamente attorno a questa riflessione presentandoci la storia della giornalista più famosa di Francia, France de Meurs, che  passa con disinvoltura dalla conferenza stampa col presidente Macron (divertente) ai reportage di guerra con giubbotto antiproiettile.
France (e la Francia) affogano in un mare di narcisismo e sensazionalismo, tutto – i servizi “autentici” come la vita privata – è costruito.
I suoi clamorosi reportage sono sì veri, ma 
 “Madame France” li crea e cura in ogni minimo dettaglio: l’inquadratura a riprendere il jihadista, gli immigrati posizionati sul barcone che tenta la traversata del Mediterraneo, e via discorrendo.
Prima ancora di essere una giornalista France de Meurs è una regista, il linguaggio dei suoi servizi televisivi è quello del cinema, la sua è una messa in scena totale, e totalmente consapevole.
Finché un giorno un incidente d’auto banale, in cui un rider immigrato resta ferito, non insinua una crepa e France si rivela, esponendo le infinite contraddizioni del mondo cinico in cui vive (e in cui ci dibattiamo pure noi).

Per rispettare il principio “tutto è show” (e di pessima qualità), Dumont spinge il sarcasmo fino alle più estreme conseguenze regalandoci un originale satira mediatica che sfocia nel melodramma caricaturale.
Dalla protagonista, interpretata con calzante antipatia da 
Léa Seydoux, alla sua appiccicosa e servile assistente Lou (Blanche Gardin), fino addirittura al “popolo” che perdona ed assolve la menzogna con un selfie, Dumont distribuisce equamente spregevolezze e compatimenti, in un film forse non per tutti, ma di una potenza deflagrante.
Precedente Marx può aspettare Successivo Drive my car